Libri che ho amato – 2: Figli succubi di cotanta madre (ancora su “Villa Ventosa” di Anne Fine)

La precedente puntata dedicata a Villa Ventosa di Anne Fine si può leggere qui.

 

Anne Fine
Anne Fine

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Lilith Collett è una donna con cui non vorreste mai avere a che fare. È la domina assoluta di Villa Ventosa e di tutta la gente che la popola. Cioè i suoi quattro figli e i loro partner. I primi subiscono il suo potere perché dentro quelle spire sono cresciuti, e avendo interiorizzato tale condizione fin dal momento in cui sono venuti al mondo la vedono come qualcosa di naturale. Dal canto loro, i secondi accumulano rabbia e sconcerto di fronte a tanta passività da parte dei figli di Lilith, e si trovano a scegliere fra l’accettazione della situazione e la diserzione delle riunioni di famiglia a Villa Ventosa. Ne sortisce un mosaico variabile. Le due figlie maggiori Victoria (Tory) e Gillyflower sono sposate, ma i loro mariti hanno da tempo optato per l’assenza. Pur di non incrociare la suocera inventano impegni e indisposizioni cui sin dalla prima volta nessuno crede. Invece Caspar, compagno di William (figlio minore nonché unico maschio della nidiata), giura ogni volta a se stesso che quella sia l’ultima partecipazione ai rituali di casa Collett, ma poi regolarmente si ascia trascinare dal partner e si espone alle frecciate della signora Collett e delle due figlie maggiori sui “pervertiti”. E infine c’è Barbara, che è l’unica figlia nubile anche perché è la meno avvenente. Grassa e di carattere fragile, Barbara è la più succube al potere della signora Lilith, che nei suoi confronti mostra una cattiveria ai limiti del sadismo. E poi qualche tempo prima c’è stato anche un signor Collett. Sin dall’inizio s’intuisce che la padrona di Villa Ventosa è vedova. Ma, appunto, bisogna intuirlo. Perché per il primo centinaio di pagine (sulle 205 totali) il signor Hector non viene nemmeno nominato. Per ovvie ragioni biologiche si dà per scontato che un signor Collett ci sia stato, e si assume come probabile che egli non sia più in vita. Però bisogna giungere più o meno a metà del libro perché ciò venga certificato. E una così lunga elusione non è soltanto un artificio narrativo scelto da Anne Fine per far sentire al lettore quanto ferreo sia il controllo di Lilith sulla famiglia. C’è che proprio non ci si pone l’interrogativo. O almeno questo è quanto successo a me leggendo e rileggendo Villa Ventosa. Lilith Collett occupa la scena in modo talmente soverchiante, catalizzando una tale quantità di sentimenti negativi, da allontanare sullo sfondo ogni altro dettaglio che costituisce l’architettura del romanzo. E in questo senso l’architettura è mirabile perché regge nonostante sia costruita su una sequenza di situazioni poco variabile, su una varietà di personaggi che si esaurisce quasi subito, e su uno scenario che quasi mai si sposta dalle poche centinaia di metri quadrati compresi tra Villa Ventosa e l’Hotel Partridge.

In questo quadro claustrofobico di contesto e di relazioni, fatto per essere statico e logorarsi poco a poco senza giungere mai davvero al punto di rottura, viene calato il fatto che costituisce l’elemento dinamico della narrazione e crea il dramma. Succede che, in occasione di una riunione di famiglia apparentemente routinaria a Villa Ventosa, Barbara annunci il proprio matrimonio. Lo fa senza che fino a quel momento nessuno sappia dell’esistenza di un suo fidanzato. E lo sconcerto della famiglia aumenta quando si scopre come mai Barbara annunci il matrimonio senza aver mai fatto cenno alla presenza di un fidanzato. C’è infatti che al Collett nubile ha conosciuto il suo futuro sposo tre settimane prima. Ciò che automaticamente genera nella famigliola riunita attorno alla matriarca la sensazione che quella donna così sgraziata e inavvenente, ormai sulla soglia dei quaranta e con alle spalle altre due esprienze sentimentali rese traumatiche proprio per il fatto che lei ne avesse ingigantito la portata, stia andando incontro all’ennesimo disastro sentimentale. E l’impressione si rafforza man mano che viene svelata l’identità del futuro sposo. Si tratta di uno spagnolo dal nome interminabile: Miguel Ángel Arqueso Algarón Perz de Vega. E fin qui nulla che possa inquietare. Piuttosto, sono altri due dettagli sull’identità di Miguel a destare perplessità: è molto più giovane di Barbara (oltreché di magnetica bellezza, come emergerà in seguito), e inoltre lavora come cameriere presso l’Hotel Partridge, che con Villa Ventosa condivide una delle mura di cinta. Ce n’è abbastanza per trasformare la perplessità in cattivi pensieri, e questo è ciò che riguarda le sorelle e il fratello di Barbara. Quanto alla signora Collett, non è nemmeno necessario specificarlo: lei, di pensieri, conosce soltanto quelli maligni e li esterna senza mediazioni. E Anne Fine raffigura questo concentrato di cattiveria con una maestria che soltanto i grandi narratori sono capaci di esibire. Per esempio, ecco la descrizione dell’accoglienza fatta dalla signora Collett della notizia che il promesso sposo della figlia è spagnolo (pagina 23):

 

<Ah, è uno straniero>. Come se fosse questa la spiegazione che la signora Collett stava aspettando. Solo uno straniero poteva essere così solo, così ignaro o – diciamolo – così sessualmente perverso da voler sposare l’enorme, incurabile montagna di lardo che le era toccata per figlia.

 

Quella appena citata non è l’unica carineria riservata dalla signora Collett alla figlia, giusto nel giorno che per quest’ultima avrebbe dovuto essere uno dei più lieti della propria vita. Poco prima (pagina 22), quando la novità stava per essere annunciata e già Barbara mostrava segni di tensione, la domina di Villa Ventosa aveva rivolto questo invito alla figlia che si ostinava a stare seduta sul tappeto del salotto:

 

<Siediti su una seggiola, cara> le bisbigliò la signora Collett a voce un po’ troppo alta. <Sembri una balena arenata>.

 

Le due frecciate  indirizzate alla figlia single nel giro di poche battute non significano che Barbara sia la sola destinataria delle carinerie della signora Collett. Poco prima (pagine 20-1), una frecciata indiretta era toccata a William e al suo partner, Caspar. Succede che Barbara, il cui lavoro è quello di responsabile di un reparto ospedaliero, mostri alla famiglia un album di foto in cui sono ritratti pazienti e colleghi durante una festa. Alcuni di loro, in piena ebbrezza, si mostrano in abbigliamenti e atteggiamenti equivoci:

 

<Be’, cara, sembrano proprio una combriccola di invertiti>.

Orgogliosa della frase, la ripeté.

<Sì, una combriccola di invertiti!>.

Il silenzio, tesissimo, cessò solo quando la piccola giardinetta francese di Tory arrivò sputacchiando davanti alla porta. Ma Caspar restò seduto immobile anche dopo che gli altri si furono alzati per andarla a salutare, chiedendosi che razza di donna era mai quella, che razza di potere aveva: di quattro adulti presenti, nessuno aveva avuto il coraggio di ricordarle che anche suo figlio era un finocchio, e quello seduto accanto a lui era lo strano amico.

 

Caspar è esterno alla famiglia, e come i mariti di Tory e Gillyflower è insofferente del potere che la madre esercita sui quattro figli adulti come se fossero ancora dei ragazzini. Questa insofferenza lo porterà a elaborare una mossa che finalmente, per la prima volta nella vita della signora Collett, porterà la domina di Villa Ventosa a subire uno smacco. Ma lo farà non già per un’esigenza di giustizia o vendetta, bensì per un calcolo personalistico: recidere il legame fra William e Villa Ventosa, il luogo a cui tutti e quattro i figli di Hector e Lilith Collett sono morbosamente attaccati. Di questo legame sono testimoni a Caspar i comportamenti di William. Che ogni volta torna a Villa Ventosa nonostante sappia di andare a scontrarsi con la madre, e che di tanto in tanto vede le proprie notti attraversate da incubi nei quali intravede la fine del luogo in cui è cresciuto e da dove è andato via senza mai diventare adulto.

Nemmeno Tory e Gillyflower riescono a recidere il legame con Villa Ventosa. Sono due mogli e madri di famiglia incastrate nelle più meschine consuetudini borghesi, e il confronto fra i rispettivi modi di comportarsi sfocia in un continuo gioco al ribasso anziché nell’emulazione al rialzo. Quando c’è da prepararsi al matrimonio di Barbara, è un momento di sollievo per entrambe convenire che si può riutilizzare abiti usati in occasione di altre cerimonie e riciclare regali lasciati da canto. La gioia che viene dalla reciproca giustificazione si associa al centinaio di sterline risparmiate, e pazienza se si tratta del matrimonio d’una sorella. Del resto, l’una e l’altra continuano a credere che Barbara stia compiendo un passo sciagurato allo stesso modo in cui non risparmiano frecciate a Caspar, reo di aver “corrotto” il fratello minore. Il loro status di “madri e mogli normali” le sigilla dentro un conformismo di straordinaria grettezza, di cui si ha un esempio nel dialogo tenuto dentro la cucina di Villa Ventosa durante la preparazione di una torta, che apre il capitolo 8 intitolato L’anno delle vacche grasse e si sviluppa attraverso le pagine 42 e 43. Oggetto della loro attenzione è ancora una volta Caspar, la cui professione (ginecologo) viene visto come un ulteriore segno di perversione. Il dialogo che segue è d’abissale desolazione. E parrebbe persino caricaturale, se non fosse che ciascuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita una persona capace di pronunciare simili bestialità:

 

Tory serrò le labbra.

<Io da uno come lui non ci andrei mai>.

Gillyflower ritrasse la mano dalle volute di buccia di mela che ingombravano il tavolo.

<E perché?>

<Lo sai benissimo> rispose rigida Tory.

<Non che non lo so. Va’ avanti. Spiegati>.

Tory posò le mani infarinate sul bordo della ciotola.

<Intendo dire che c’è qualcosa di leggermente malato in uno che non ama le donne abbastanza per andarci a letto ma per lavoro ci caccia dentro le dita dal mattino alla sera>.

Gilly considerò la cosa per qualche istante.

<E le donne ginecologo, allora? Non è lo stesso?>

<Per niente. L’unico paragone possibile è quello di una lesbica specializzata in proctologia>.

 

È questo il ritratto di famiglia nell’interno di Villa Ventosa. Sono questi i caratteri forgiati dall’educazione anaffettiva di Lilith Collett e il contorno di relazioni che ne scaturisce. Tutto ciò rafforza l’assunto da cui sono partito in apertura di questo post: nessuno mai vorrebbe avere a che fare con una donna così. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. E soltanto guardando al rovescio, nella prossima puntata di questo viaggio attraverso il romanzo di Anne Fine, si potrà capire il perché di tanta cattiveria. E persino averne comprensione.

(2. continua)

2 risposte a “Libri che ho amato – 2: Figli succubi di cotanta madre (ancora su “Villa Ventosa” di Anne Fine)”

  1. […] Le prime due parti della mia analisi su Villa Ventosa sono pubblicate qui e qui. […]

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