“Tu non hai idea di quanto pietosa sia la condizione della donna italiana media”. Ho raccolto questa battuta durante una conversazione privata su Facebook. Come al solito si parlava di libri. Di pessimi libri, per essere precisi. E l’attenzione era caduta sulla serie “La confraternita del pugnale nero”.
Di cui mi è stato riferito che abbia un grande seguito di lettrici, molte delle quali radunate dentro agguerriti forum internet. Mi si è narrato di discussioni all’ultimo sangue, e di dannazioni reciprocamente scagliate come se in ballo ci fosse l’onore d’intere stirpi oltre a quello personale. Una confraternita che s’accapiglia sulla Confraternita, verrebbe da dire. Tutto molto desolante se osservato dall’esterno. E tanto più rilevante se penso che a passarmi tali informazioni e considerazioni sullo stato della donna italiana media è stata una donna.
Non sono in grado di confermare il giudizio della mia interlocutrice a proprosito della Confraternita (intesa come romanzo seriale) e delle consorelle, perché non conosco l’una e le altre. Posso invece supportare al centouno per cento l’opinione sul desolante stato di salute culturale e emotivo-affettiva della donna italiana media. E neutralizzo immediatamente l’accusa di misoginia ricordando quali siano state di recente le mie considerazioni sull’uomo italiano medio. Un tipo di cui ho una pessima opinione, ma costantemente suscettibile di peggioramento. Ne ho parlato nella breve serie di post dedicata alle web avventure di Lara (si legga qui, qui, qui e qui), cui prima o poi dovrò dare un seguito. Dunque non mi si può accusare d’avere pregiudizi di genere se dico che sì, la condizione della donna italiana media tocca livelli di sfacelo forse peggiori rispetto a quelli toccati dalla condizione dell’uomo medio. E è proprio dall’industria culturale che giungono i sintomi più significativi di questa degenerazione. L’incomprensibile trionfo della serie delle 50 sfumature e di tutti i suoi surrogati ne è un esempio, così come la divizzazione di Fabio Volo. Ma non è ancora abbastanza. Come nel caso del maschio italiano medio stanato da Lara, anche nel caso del suo corrispettivo femminile è sul web che vengono a registrarsi gli schemi comportamentali più tristi.
Abbiamo tutti abbastanza esperienza di internet per sapere come vadano le cose.
La rete apre un campo di facoltà che non tutti siamo in grado di governare. Le possibilità si moltiplicano assieme agli abbagli, e i rischi vengono percepiti soltanto dopo. Molto dopo. Soprattutto il web è una sterminata serra di artisti senz’arte, ma che trovano una parte altrimenti negata (e per ragioni più che legittime) nella vita offline. I social network pullulano di cantautori che nella vita offline non hanno pigolato una strofa nemmeno al terzo matrimonio della sorella. O di poeti che imbroccano raffinate rime tipo “Bevvi l’acqua minerale/ feci colmo l’orinale”. O di filosofi che non sbagliano mai la qualità d’olio di semi da usare per friggere l’aria. E infine di autonominati scrittori, pronti a discettare del tema che non passa mai di moda: l’ammooooore. E quando un giorno l’umanità si sarà estinta, forse un’entità intellettualmente superiore spiegherà come mai questa specie di bipedi del passato pullulasse di maniaci sentimentali. Purtroppo questa spiegazione non posso darla io. Sono contemporaneo di tutto questo, mi manca il distacco che serve a giudicare. Ma posso dire con certezza che, rispetto a ciò, l’epoca del web ripropone una struttura di mercato e schemi di consumo consolidati già nel tempo in cui non era ancora avvenuto il passaggio dagli atomi ai bit: il pubblico è quasi esclusivamente femminile, i divi sono soltanto maschili. Una volta si chiamavano casalinghe disperate, adesso sono le Desperate Webwives. Loro se ne stanno lì a spasimare dietro a ogni aggiornamento web del divo credendo che dall’altra parte dello schermo si celi un omino ammodìno, in completo rigato con camicia bianca e pochette celeste che sbuca dal taschino, aduso a scrivere i post sul web soltanto dopo aver affondato il naso in un bocciolo di rosa rossa. Non immaginano, le ignave, che all’altro capo della comunicazione c’è spesso un lercio in mutande e canottiera, con la cicca che gli pende dal labbro e una mano sulla tastiera mentre l’altra gratta vigorosamente dentro i boxer. “Mò che je scrivo a ‘ste zzozzone?” dice soavemente fra sé e sé, mentre in giro per la rete una colonia di groupie attende trepidante.
È questo il brodo di coltura in cui nasce il fenomeno-Massimo Bisotti. A proposito del quale va rilevata una situazione paradossale: è al tempo stesso sconosciuto e notissimo. Un fenomeno di nicchia. Fa il pieno nel recinto delle Desperate Webwives; mentre fuori da lì è sconosciuto se gli va bene, altrimenti è disprezzato. E anch’io non avrei mai saputo della sua esistenza se non mi fosse stata segnalata. Un giorno mi venne detto di questo Massimo Bisotti che semina per il web pensierini sentimentali d’imbarazzante banalità. Andai a controllare, e trovai uno sfoggio d’insulsaggini assortite. Ma al tempo stesso fiutai la possibilità che quel virus si trasformasse in epidemia. Perché da sociologo so quanto sia forte la capacità di presa della banalità. Specie sul web, e specie se incrocia delle consolidate mediocrità esistenziali in cerca di rassicurazioni all’ingrosso. È per questo che invito sempre a non trascurare l’effetto-Chance Gardener. Cioè la capacità di presa di personaggi come il giardiniere alienato e disadattato di Oltre il giardino, le cui ovvietà vengono scambiate per acute considerazioni dal presidente della repubblica americano e da alcuni fra i suoi più influenti consiglieri. Quello dice che “dopo l’inverno arriva la primavera, e alla gelata succede la fioritura”, e i suoi interlocutori l’ascoltano come fosse un oracolo le cui parole vanno decodificate.
Il web è pieno di Chance Gardener, di spacciatori d’insulsaggini che vengono scambiati per delicati distillatori di sentimenti, per profondi pensatori new age o addirittura per profeti di una spiritualità inedita. E il problema non consiste nella loro pochezza, quanto nel fatto che essi siano lo specchio d’una mediocrità di massa. Composta di gente che ha rinunciato a affrancarsi dai propri limiti, e anzi cerca rassicurazioni sul fatto che quel poco di cui è capace sia una soglia accettabile. Persone in fuga dall’obbligo d’essere esigenti verso se stesse.
È dentro quest’ambiente stagnante che emerge Massimo Bisotti. Un omino che scrive cose pessime per forma e contenuto, libri compresi. La versione da hard discount dell’orrendo Fabio Volo, che al confronto spicca come un Boris Vian dei giorni nostri. Nemmeno capace di scrivere una bio decente per il sito personale. Ve la riporto così com’è e dopo averne salvata la versione corrente, in vista dell’intervento della mano pietosa d’un webmaster:
Sono nato e vivo a Roma, ho studiato Lettere, suono il pianoforte e amo l’energia che mi trasmette. Compongo musica, sono un appassionato di letteratura, psicoiogia, filosofie orientali, in particolare amo la cultura Zen. Credo di aver iniziato a scrivere perché le mie parole rimarginassero le ferite e si chiudessero in cicatrici. Mettersi a nudo è un rischio ma vale la pena rischiare. Fondersi senza confondersi è alla base di ogni rapporto che funzioni. Utilizzare ogni dolore vissuto per gli altri e non come un pass contro gli altri. Spendersi senza riserve e donare quel che si può. Quindi donare quel che si è. Viaggia pure attraverso le strade dell’anima ma senza andare controcuore. Avere contro il tuo cuore è più devastante che avere contro il cuore degli altri. La mia bio in due parole? Mai controcuore_
Mai vista tanta sciatteria distribuita in così pochi caratteri. Va a finire che il solo frammento su cui non si ha alcunché da ridire è. “Sono nato e vivo a Roma”. Poi cominciano le magagne.
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“Ho studiato lettere”; significherà mica che non si è laureato?
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“Suono il pianoforte e amo l’energia che mi trasmette”; cioè, una cosa non verificabile unita a una delle banalità più diffuse al mondo, quella riguardante l’energia che deriva dal suonare uno strumento musicale.
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“Compongo musica”; qualcuno conosce un brano musicale di cui Bisotti sia autore?
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“Sono un appassionato di letteratura, psicologia, filosofie orientali, in particolare amo la cultura Zen”; e qui, signore e signori, c’è il concentrato di banalità. Analizziamo i singoli segmenti. 1) “Sono appassionato di letteratura”: frase generica e dunque svuotata di significato, tanto quanto “sono appassionato di musica” o “sono appassionato di cucina”. 2) “(Sono appassionato di) psicologia”: cosa un po’ meno generica, e che comunque non prefigura alcuna competenza specifica sul tema, come del resto è facilmente riscontrabile dalla lettura dei testi bisottiani i cui personaggi mostrano una raffinatezza psicologica da cartone animato manga. 3) “(Sono appassionato di) filosofie orientali”; e qui siamo oltre la vaghezza (qualcuno sa quali cazzo siano i perimetri teorici e geografici delle “filosofie orientali”?), perché a essa si aggiunge la più trita delle scontatezze. Un altro appassionato di “filosofie orientali”! Vi mancava, vero? Dopo il vostro pizzicagnolo che da tre mesi s’è invaghito della supplente precaria di filosofia, e vorrebbe andare oltre la schiacciata cotto e fontina che le confeziona cinque giorni alla settimana perciò va a caccia d’argomenti per attaccare bottone; dopo il vostro parcheggiatore abusivo che da un sacchetto di libri abbandonato accanto al cassonetto della carta da riciclare ha pescato un volume di Zap Mangusta; dopo la vostra parrucchiera che s’è scoperta buddista, e lo rimarrà fino a che il suo collega estetista più giovane di dieci anni non si sarà fracassato i coglioni di partecipare ai riti del gruppo; dopo tutto ciò, sentivate proprio il bisogno di un Bisotti appassionato di “filosofie orientali”. E giuro che stapperò champagne il giorno in cui sentirò qualcuno dichiararsi appassionato di filosofie scandinave, o centramericane, o del Corno d’Africa. Perché ormai “appassionato di filosofie orientali”, al pari di “automunito” e “militesente”, è diventata una voce curricolare obbligatoria, senza la quale si rischia di non superare la prima scrematura di qualunque selezione per una posizione lavorativa. Provate a non metterci dentro “appassionato di filosofie orientali”, e vedrete come il vostro curriculum sarà fra i primi a volare nel cestino, più ancora che in conseguenza del mancato titolo di scuola media superiore. 4) Infine, “in particolare amo la cultura Zen”. Preposizione sulla quale molto ci sarebbe da ridire, poiché lo Zen è innanzitutto un atteggiamento verso la vita e il quotidiano, e non certo una cultura. Ma su questo si può anche essere indulgenti, dato che stiamo parlando d’uno di quegli oggetti a proposito dei quali l’attività di divulgazione ha causato gli effetti più deteriori. Rimasticatura d’altre rimasticature sputacchiate perché precedentemente ruminate e ripassate di bocca in bocca. In questo senso il povero Bisotti è solo uno dei tanti che hanno riciancicato la rimasticatura.
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“Credo di avere iniziato a scrivere perché le mie parole rimarginassero le ferite e si chiudessero in cicatrici”. Questa è una delle Supercazzole Programmatiche Bisottiane, un concentrato d’insensatezza e di pessima scrittura. Si parte dal fatto che l’autore avrebbe delle ferite da curare. Una dichiarazione di fragilità che presso il vasto popolo delle Desperate Webwives ha sicura presa. Viviamo ancora l’epoca in cui l’uomo è moralmente e psicologicamente interdetto dal dichiarare in pubblico le proprie debolezze, figurarsi esibire le ferite. Sicché, se capita che un bipede maschile lo faccia, ecco che per incanto questi si ritrova circondato da un affetto femminile di venatura materna, diventa l’Idolo del Gineceo. “Ma guardate quanto è coraggioso e tenero quest’ometto che dichiara le proprie debolezze! Fossero tutti così l’òmmini!”. Dopo aver calato l’asso, Bisotti propone una frase dal senso zoppicante. Dice che le parole dovrebbero rimarginare le ferite e chiudersi in cicatrici. Dunque, prendendo alla lettera ciò che il San Sebastiano de noantri scrive, sono le parole e non le ferite a chiudersi in cicatrici. Voleva dire questo? Perché se è così, e al di là del fatto che comunque il senso è parecchio incerto, suona parecchio male leggere da uno “scrittore” che le parole sono cicatrici. Va anche precisato che quanto a cicatrici Bisotti ha idee parecchio bizzarre. Le esterna nel suo primo cosiddetto romanzo, “La luna blu”. Qui, nel cuore d’uno fra i tanti e spropositati monologhi (pagina 15), si legge: “I graffi del tempo rendono più luce a un viso e ne abbelliscono i contorni, se si nasce sotto il segno dell’amore. Le cicatrici non le inganni e quelle vere, quelle di chi ha amato davvero, non amano il trucco. Sono orgogliose di farsi mostrare”. La cicatrice come cifra estetica: come dire alle bisottine che, se sono davvero colme di grazia e sentimento amoroso, dovrebbero cadere ai piedi di Freddie Krueger.
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Dopodiché il testo cambia registro. Smette d’essere una bio per trasformarsi in un’accozzaglia di frasi fatte e slogan da seminario motivazionale della Bisottology Inc. Probabilmente lui non scorge nemmeno l’incongruenza, di certo non la colgono le Desperate Webwives.
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Si comincia con “Mettersi a nudo è un rischio ma vale la pena rischiare” (Anche mettersi in coda alle poste è un rischio, ma purtroppo s’ha da fare).
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Si prosegue con “Fondersi senza confondersi è alla base di ogni rapporto che funzioni”; che oltre a essere un mediocre gioco di parole sa tanto di manuale Ikea per il montaggio di un armadio (avvitare rondella 13 al punto A per fissare anta 2, incrociare dita e che Dio v’assista).
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Quindi si passa al punto seguente, e lì c’è la castroneria: “Utilizzare ogni dolore vissuto per gli altri e non come un pass contro gli altri”. Scritto come peggio non si potrebbe. La prima parte della frase avrebbe dovuto correttamente essere scritta come segue: “Utilizzare per gli (o a beneficio degli) altri ogni dolore vissuto”. Così avrebbe reso il senso che Bisotti intendeva (si spera) comunicare. Invece nella formula abborracciata che si trova nella “bio” essa può essere interpretata anche nel senso di “Utilizzare ogni dolore causato dall’aver fatto un beneficio a altri”, o “occasionato dagli altri”. Ma è soprattutto la seconda parte a provocare raccapriccio: “…e non come un pass contro gli altri”. Ma cosa cazzo c’entra il pass? E che senso ha il termine nel contesto di questa frase? Di sicuro non ci azzecca nulla. Trattasi di vocabolo sparato a caso, come avrebbe potuto essere “tegame” o “zanzariera”. E come si vedrà nel lungo viaggio attraverso le pagine bisottesche non si tratta dell’unico esempio. Più probabilmente lo “scrittore” intendeva consigliare di non usare il dolore “come un’arma contro gli altri”, o “come un pretesto di rivalsa contro gli altri”. Poveraccio, non gli è riuscito fare meno peggio di quello che ha fatto.
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Ancora: “Spendersi senza riserve e donare quel che si può. Quindi donare quel che si è”. Un solo commento: mah!
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Andando avanti c’è un altro cambiamento di registro. Dopo essere passato dall’illustrazione della bio all’enunciazione dei princìpi della Bisottology in forma impersonale, l’autore approda all’enunciazione dei princìpi della Bisottology rivolgendosi direttamente alla bisottina. “TU!”, e l’indice punta minaccioso il petto della malcapitata come fosse un cannone. E lì la bisottina si fa picciriélla picciriélla mentre parte il precetto: “Viaggia pure attraverso le strade dell’anima ma senza andare controcuore”. Altrimenti? Dieci punti in meno nella patente? (“TU!”).
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Le due frasi successive, strettamente correlate e perciò trattate insieme, svelano chi sia il vero nume culturale di Massimo Bisotti: “Avere contro il tuo cuore è più devastante che avere contro il cuore degli altri”. Ma questo è Gianni Togni! E immagino che Bisotti scriva ascoltando in loop via cuffie “Segui il tuo cuore”. Me lo figuro mentre tutto ispirato ticchetta le sue minime filosofiche mentre scorrono i versi: “Tu segui il tuo cuore/ capirà/ cosa vuole/ E lasciati andare/ capirà/ cosa fare”.
- Il cantautore di “Luna” sarebbe oggi un guru sentimentale, ha proprio sbagliato tempo. Avrebbe potuto scrivere aggiornamenti di stato come “Oh-oh-oh/ oh-oh-oh-oh/ Non ce la faccio più!” facendo squittire un esercito di tognettine, e avrebbe loro ammannito senza difficoltà anche i passaggi più criptici come “Discuto a fondo sulle potenzialità/ delle mie estremità”. Roba da usare con cura, mica come un pass contro gli altri.
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E si giunge al tocco finale: “La mia bio in due parole? Mai controcuore_”. Come sarebbe a dire “La mia bio in due parole”? Ma perché, fin qui che cazzo hai fatto se non la tua bio? Inoltre, si noti lo slogan viene seguito da un underscore anziché da un punto. Degno modo per concludere sciattamente un testo sciattissimo.
Questo è Massimo Bisotti. Un Pink Bloc, se proprio dovessi essere io a ridurre la sua bio in due parole. Perché ci sono i Black Bloc nerovestiti, quelli che vanno in un luogo con l’intento di far casini e devastare tutto. E poi ci sono i Pink Bloc, quelli rosa nell’animo che vi massacrano di sentimentalismi melensi, che vi si scaraventano addosso come kamikaze del buonismo, che vi carezzano e vi tocchicciano con mani appiccicose di melassa. Lui è così. E per di più si è costruito un personaggio dalle sfumature pop. Uno che nelle foto indossa quasi sempre gli occhiali da sole (e tale ritrosia a mostrare gli occhi dovrà pur significare qualcosa), e che si mantiene fedele a un dress code il cui ispiratore può essere soltanto Tommaso Zanello in arte Er Piotta.
Ma giunto alla fine di questo lavoro speso a delineare il personaggio, dichiaro che contrariamente a quanto si possa pensare io provo ammirazione per Massimo Bisotti. Non per ciò che è, cosa che proprio non m’interessa. Né per ciò che scrive, che come già detto e iniziato a dimostrare è materiale pessimo. Ma perché ha saputo dimostrare uno straordinario fiuto per gli affari. Nel suo piccolo è un imprenditore innovatore, un businessman che ha scoperto una nicchia di mercato non percepita da altri e l’ha occupata. Potrebbe tenere seminari confindustriali sulle start up, perché lui ne ha creata una che fa affari d’oro: se stesso. Del resto, se c’era una sterminata mandria di Desperate Webwives cui mungere le mammelle del disordine sentimentale, perché mai non approfittarne? Erano loro a chiederlo, e lui ha offerto un servizio. Business is business. Piuttosto, è proprio sulle bisottine che bisogna interrogarsi. Quelle che si fanno tatuare sulla pelle “Mai controcuore”. Quelle che magari frustrate dalla loro vita sentimentale vanno a prendere una boccata d’aria fra i testi bisotteschi, e rinfrancate se ne tornano alle loro frustrazioni ma con animo ammansito. È su costoro che bisogna porsi degli interrogativi. Lo si farà a partire dal prossimo articolo di questa serie, in cui si comincerà a passare al setaccio i testi dello “scrittore” Massimo Bisotti. “Tu non hai idea di quanto pietosa sia la condizione della donna italiana media”. Quest’idea ce la faremo leggendo i testi bisottiani, a partire dal prossimo post.
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